Buongiorno lettori, come potete intuire, torniamo oggi a parlare di Dublino, per concludere la triade di articoli dedicati a questa città. Ci siamo prima immersi nella sua atmosfera, abbiamo proseguito con un breve tour dei luoghi di interesse principali e adesso torniamo ai nostri amati libri. E quale altra avrebbe mai potuto essere la star del giorno se non Dubliners, di James Joyce?
Gente di Dublino (questo il titolo nella traduzione italiana) è considerata insieme all’Ulisse l’opera maestra dello scrittore irlandese. Si tratta di una raccolta di 15 short stories ambientate nella Dublino di inizio Novecento, che diventa simbolo di un’epoca paralizzata dal punto di vista politico, religioso e morale.
Le storie sono suddivise in base alle fasi della vita, dall’infanzia, all’adolescenza, alla maturità e vita pubblica. Vengono presi di mira la Chiesa cattolica, particolarmente invadente con i suoi precetti morali e la sua ipocrisia, e la politica, incapace di guidare adeguatamente la nazione. I personaggi vivono tutti una condizione di miseria, non necessariamente economica, e trascinano le loro giornate sempre uguali, alcuni commiserando il proprio destino, altri senza quasi accorgersi della situazione in cui versano. In tutti i racconti però, si verifica un’epifania, un gesto, una situazione o un oggetto che risveglia le coscienze: talvolta viene praticamente subito ignorata, altre spinge i protagonisti alla fuga, alla ricerca di una realtà migliore. Eppure, ci mostra Joyce, non c’è speranza per il cambiamento e ogni tentativo è destinato a fallire.
Ora io qui lo ammetto: non è esattamente il mio libro preferito, anzi. E una delle ragioni principali è che purtroppo tra me e le raccolte di storie brevi, racconti o novelle non c’è mai stato feeling; datemi invece un tomo da oltre 1000 pagine e avrete fatto la mia felicità. Non a caso la storia che mi è piaciuta di più è The Dead, il racconto più lungo che fa da epilogo alla raccolta.
Inoltre il primo approccio non era stato dei migliori: compiti delle vacanze estive di quarta liceo, lettura e analisi di tre racconti come preparazione per poi affrontarlo in letteratura nel corso dell’anno successivo. Inutile dire che ero rimasta un po’ spaesata, senza una guida adeguata se non quella del libro che cercava di stimolare il pensiero dello studente con domande ad hoc (ma io avevo solo caldo e voglia di andare al mare). La scintilla non è poi scattata neanche quando è stata l’insegnante a trattare l’opera a lezione. Avevo decretato che Joyce per me era un capitolo chiuso.
Illusa di essermene liberata per sempre, l’ho ritrovato come oggetto di esame del modulo di analisi linguistica e stilistica inglese all’università. L’ho quindi letto tutto, due o tre volte, soffermandomi su costruzioni, scelte lessicali, simboli, stile, narratore e punto di vista, per scoprire che alla fine qualcosa mi stava lasciando. Anche questa volta nessuna guida diretta, il professore non si è preoccupato di tenere lezioni sull’opera e spettava a noi sviscerarne il significato con i mezzi che ci aveva messo a disposizione nell’arco di tre anni. Però il messaggio arrivava e riuscivo ad apprezzare anche la tecnica con cui era stato veicolato.
Ho anche così scoperto che alcune delle storie che avevo letto in precedenza (The Boarding House e Clay) sono tra quelle che meno mi hanno colpito in generale. Altre credo di non averle ancora comprese del tutto (After the Race o Ivy Day in the Committee Room). Altre, infine, sarebbero state ideali per un primo incontro.
Parlo, ad esempio, di Araby, nella quale un ragazzo non aspetta altro che recarsi a un bazar (simbolo di terre lontane ed esotiche) e comprarvi un regalo per la ragazza di cui è infatuato. Per via di alcuni contrattempi, però, vi arriva tardi, verso l’ora di chiusura, quando il fascino delle bancarelle è eclissato perché tutti stanno sbaraccando e ad aspettarlo c’è solo solitudine e tristezza.
Oppure A Little Cloud, che illustra una situazione in cui almeno una volta nella vita ci siamo ritrovati o ci ritroveremo tutti. Il protagonista incontra a distanza di anni un vecchio conoscente che incarna l’uomo di successo: è andato all’estero, ha girato il mondo, ha fatto fortuna, è circondato da belle donne. L’invidia nasce spontanea in lui che, invece, è intrappolato nella sua quotidianità; l’impulso di fuggire per inseguire i suoi sogni si fa insistente, ma il ritorno a casa con i rimproveri della moglie per aver fatto piangere il bambino lo svuotano di qualsiasi velleità rivoluzionaria.
Ma anche Counterparts, in cui assistiamo a una catena di violenza e soprusi. Il protagonista è un mediocre impiegato infelice del suo lavoro e continuamente sottoposto a umiliazioni e sfuriate da parte del capo. Tuttavia non si rivela migliore di lui: tornato a casa, scatena la sua frustrazione picchiando il figlio più grande, che si stava solo occupando di preparargli la cena.
Per terminare, come dicevo prima, con The Dead. I protagonisti sono di estrazione sociale più elevata, l’atmosfera sembra allegra e festosa con i tanti ospiti che partecipano al ballo annuale. Ma quando Gabriel si ritira in camera d’albergo con la moglie Gretta, l’unico sentimento che prevale è la tristezza, nel ricordo di un giovane innamorato di Gretta morto prematuramente a causa di una malattia. E lo sguardo va oltre la finestra, fisso su quella coltre di neve che sta ricoprendo il mondo e tutti i suoi abitanti, vivi e morti, annullando qualsiasi differenza tra gli stessi.
È sempre particolare visitare un luogo che costituisce l’ambientazione di opere letterarie. Visitando Dublino a un secolo di distanza ripensavo a Joyce e a quello che rappresentava per lui questa città. Visto che questa esperienza di lettura alla fine ha dato i suoi frutti, mi ha sempre un po’ allettato l’idea di provare a prendere in mano l’Ulisse, ma so che ancora non è giunto il suo momento. E ditemi, qual è invece il vostro rapporto questo autore?