Scusate, ultimamente ho difficoltà a stare dietro al blog con costanza, ma finalmente oggi arrivo per il secondo appuntamento con la scrittrice Pearl S. Buck e una storia che mi ha appassionato ancor di più di quella che vi ho presentato la scorsa volta. David MacArd, David MacArd Jr., Ted MacArd, Livy MacArd. Quattro generazioni, un destino legato all’India.
David MacArd è un magnate americano, la cui fama travalica gli oceani, ed è tormentato dal dolore per la recente perdita della moglie. Un viaggio in India gli apre gli occhi sull’estrema povertà in cui versa la popolazione, povertà che per lui è diretta conseguenza della religione professata, l’induismo. Per questo motivo, tornato in America decide di fondare una scuola in ricordo della moglie, molto devota, per formare un “esercito” di missionari da spedire in Asia in modo da evangelizzare gli indiani e permettere loro di condurre una vita all’occidentale degna di questo nome. Di certo non prevedeva che il proprio figlio, David MacArd Jr. decidesse di diventare lui stesso missionario e partire immediatamente alla volta di quel Paese così inospitale.
Il romanzo si concentra sul diverso rapporto che le quattro generazioni di americani sopra menzionate sviluppano con l’India, a ogni salto il legame si fa più profondo, tanto che l’integrazione assoluta con la comunità locale sembra ormai scontata, eppure… Eppure il mondo non è ancora del tutto pronto a superare certi pregiudizi, certe barriere tra etnie che non hanno ragione di esistere perché nessun uomo sulla terra è inferiore a un altro.
Ci viene offerto uno spaccato sul periodo coloniale, anche se il punto di vista è quello degli americani, che si pongono forse in modo più neutrale in questo discorso, ma che non riescono a discostarsi del tutto dai precetti occidentali. La volontà di offrire un futuro migliore a questo popolo in difficoltà è certamente lodevole, ma è un aiuto che arriva sempre dall’alto, a certe condizioni. Si parla a lungo della possibilità di concedere all’India l’indipendenza, ma americani e britannici ritengono che non sia ancora pronta: senza l’Impero e la sua saggia guida sarebbe perduta. Come ben sappiamo, però, lo spirito di ribellione continua a fermentare e sulla scena si profila Ghandi, le cui idee favoriranno un cambio radicale nella vita di alcune persone, ma scateneranno anche conflitti e divisioni familiari.
Osserviamo l’India attraverso la lente di un cannocchiale, avvicinandoci sempre più alla sua essenza. Prima ci appare estremamente lontana, uno stato asiatico come un altro al di là dell’oceano. Abbiamo poi modo di conoscerla più da vicino grazie alla vita che conduce David come missionario, ma la vista è sempre sfalsata: ci aggiriamo per le stanze di una grande casa ancora molto occidentale nello stile e dove viene impiegata servitù indiana, ragazzi donne e uomini che dormono sulla soglia di una stanza pronti ad accorrere al minimo cenno del padrone. Ma c’è anche un po’ di contaminazione, nell’arredamento (ad esempio il punkah, una specie di ventilatore), nei cibi e nei vestiti, che permette all’India di fare capolino. Dalla vita agiata di chi ha i soldi passiamo quindi a conoscere da vicino la miseria dei villaggi, dove le case sono capanne fatte di fango e le persone muoiono di fame. Ma anche dove i sentimenti sembrano più autentici e l’India può quasi essere chiamata patria. Anche se, ricordiamoci, per quanto riguarda l’istruzione tutti i vari MacArd vengono sempre rispediti negli Stati Uniti al fine di completare gli studi superiori e universitari.

L’India però vi affascinerà, con le sue meraviglie e quanto di spaventoso nasconde: le città affollate e brulicanti di vita, i caratteristici mercati e i colori di tessuti e spezie; le case dei ricchi, dagli ameni giardini con tanto verde e giochi d’acqua, e i poverissimi villaggi, gli aridi deserti dove non scorre un fiume né esiste un pozzo; il caldo asfissiante, insopportabile e provante, latore di carestie, e i monsoni che si abbattono con le loro intense piogge costringendo la popolazione in casa per giorni e giorni; indiani che non fanno nulla di fronte a un serpente velenoso perché incarna lo spirito di una divinità e altri che hanno studiato all’estero e fanno di tutto per sembrare il più possibile inglesi; gli animali pericolosi, come le scolopendre che durante la notte potrebbero essersi infilate nelle tue pantofole, o l’epidemia di peste che decima la popolazione; grandi espressioni di potere, come il caso del durbar in occasione della visita ufficiale del Principe del Galles, e manifestazioni e gesti eclatanti per rivendicare i diritti di un popolo che non ne vuole più sapere di catene.
Voglio però ricordare anche un altro personaggio: Darya, il compagno di università di David che ha un po’ il compito di introdurlo a questo Paese così difficile da comprendere. Sembrano andare facilmente molto d’accordo, per via della vita occidentale che Darya ha condotto, eppure c’è un limite invalicabile e il giovane riserva sempre toni canzonatori a chi pensa di capire l’India meglio degli indiani stessi. D’altra parte Darya crede profondamente nell’induismo e nella predestinazione, non si fa cruccio delle sue ricchezze, non si sente in colpa nei confronti di chi muore di fame semplicemente perché tutto avviene secondo il fato, e come tale bisogna accettarlo.
Questo è un romanzo di incontri e scontri: tra generazioni, tra popoli, tra religioni. Ne scaturiscono anche strane contaminazioni, come il ragazzo indiano di buona famiglia che vuole diventare un sadhu, un tipico asceta induista, predicando però la parola di Cristo. E l’orrore del padre non è rivolto tanto alla conversione al cristianesimo, quanto alla volontà di buttare all’aria le ricchezze di famiglia. Per me, che da lungo tempo sono affascinata da questo Paese, è stato come aggiungere un altro tassello che si incastra alla perfezione nel grande puzzle riguardanti le mie letture sull’India.
Questa è una scrittrice statunitense che non ho mai letto ma che da tempo mi incuriosisce, e i tuoi articoli dedicati (molto belli, presentati in modo chiaro e scorrevole) mi hanno ora convinta a darmi da fare per recuperare qualche suo libro 😉 Tempo fa, se non sbaglio, si trovavano solo al mercatino dell’usato, ma mi sembra che negli ultimi anni qualcosa è stato ripubblicato.
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Ti ringrazio molto! 🙂
“La buona terra” è il titolo più famoso e forse è più facile trovarlo. Non ne ho ancora parlato perché prima volevo rileggerlo e rinfrescare la memoria. Per quanto riguarda gli altri due, tutto merito della libreria di mamma 😂
“Il frutto mancato” in particolare mi ha davvero coinvolto, sono contenta di averlo scoperto.
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