Addio a Berlino | Recensione

Addio a BerlinoAddio a Berlino è il mio secondo incontro con Christopher Isherwood. Ho scelto di leggerlo per conoscere gli ingredienti base del musical Cabaret (che non ho ancora visto, ma di cui ho sentito alcune canzoni più famose) e mi ispirava la trama, semi-autobiografica, di un insegnante inglese che vive a Berlino negli anni ’30 e le dice addio quando la pressione nazista inizia a farsi più evidente. Una volta voltata l’ultima pagina, ho continuato a rimuginarci sopra per giorni e la (lunga) recensione che segue ne è il risultato.

Per prima cosa, non mi aspettavo che fosse scritto come “raccolta di racconti“, forma narrativa con cui io ho i soliti problemi. In realtà non si possono definire veri e propri racconti: non sono autoconclusivi e indipendenti l’uno dall’altro; sono episodi di vita, fotografie che colgono un anno specifico, una persona in particolare o un’intera famiglia. Tutto è collegato, si avanza per argomenti invece che in ordine cronologico.

Addio a Berlino

Il risultato potrebbe quindi essere comunque coinvolgente, ma si percepisce un certo distacco, assolutamente voluto. La prima cosa che il narratore (che porta lo stesso nome dell’autore) tiene a dirci è che lui si limita a registrare quello che gli sta intorno come una macchina fotografica. O come una macchina da presa, aggiungo io: le scene si presentano come in una sequenza al cinema, vedi proprio l’obiettivo che si sposta per soffermarsi su certi dettagli di ambienti e persone (un braccio che si alza e poco dopo il focus si sposta agli anelli della mano). È quindi uno sguardo quasi esterno, a tratti neutrale (anche se nessuna inquadratura è neutrale, i registi lo sanno bene), raramente sappiamo quello che pensa Herr Christoph delle persone che lo circondano, le porta sulla scena senza spiegarci molto, lasciando che siano dialoghi e azioni a parlare al posto suo. E a volte per questo motivo sento di essere rimasta indietro. La mia più grande incognita rimarrà Peter, e la sua travagliata e tossica relazione con il giovane Otto. Sento che mi sfugge qualcosa.

Con Sally mi è andata meglio. Ha lasciato l’Inghilterra e la ricca famiglia per lavorare nel mondo dello spettacolo, ma non è molto brava e non ha molta fortuna, quindi preferisce dare la caccia a uomini facoltosi che la possano mantenere. Christopher prova una specie di odio-amore nei suoi confronti, a un certo punto pensa di essersi innamorato, ma non ne è certo neanche lui e quasi mai ci svela quello che prova. Sally è sicuramente un simbolo: l’eleganza inglese, la ricerca della libertà, la spregiudicatezza, l’esagerazione, ma anche la dura realtà, un po’ decadente, dove non c’è spazio per sogni di bambina. Nonostante questo la ragazza è un’antitesi vivente: diciannove anni, si sente adulta nel prendere certe decisioni in completa libertà, ma è subito chiaro che verso la vita e verso gli altri continua ad avere un atteggiamento infantile. È capricciosa, e un po’ ingenua, finita in un mondo più grande di lei e di cui spesso rimane vittima.

A lei si contrappone Natalia, allieva di Christopher e figlia di una ricca famiglia ebrea, i Landauer. Diciotto anni, incontra Sally e ne rimane scandalizzata. Ma anche Natalia è intrappolata nelle regole della sua famiglia per bene e cerca una via di fuga in una romantica storia d’amore. Chiaramente ci prova con Chris, non le interessa minimamente imparare l’inglese, tanto che al posto di far lezione chiacchierano e vanno al cinema. Chris, d’altra parte, non ricambia e la tratta gentilmente, ma sempre con po’ di sufficienza.

Il romanzo presenta anche un’altra contrapposizione, tra due famiglie. Da una parte proprio i Landauer. Zio e cugino di Natalia sono proprietari di una catena di grandi magazzini di enorme fortuna. Vivono nell’agio, hanno vestiti eleganti, macchine sportive, una villa sul lago dove dare feste. Approfondiamo in particolare la figura di Bernhard, amante dell’Oriente e tormentato dal passato. Dall’altra ci sono i Nowak, la famiglia del giovane Otto menzionato sopra. Christopher soggiorna presso di loro per alcuni mesi, quando è totalmente a corto di finanze. Tedeschi, sono poverissimi e vivono nei quartieri degradati della città, in quattro in un sottotetto dove tutto sta cadendo a pezzi e non ci sono condizioni igieniche adeguate.

Decadente è l’aggettivo che meglio descrive questo “romanzo”. È un resoconto che non ha nulla di positivo, non c’è spazio per belle parole, l’autore è brutale. Si aggira per bettole e caffè di second’ordine dove il senso del decoro è messo da parte. Una bellezza sfiorita, preludio agli orrori che seguiranno da lì a poco. Mi hanno colpito in particolare le descrizioni fisiognomiche delle persone che Christopher incontra. Non mi ero mai imbattuta in nulla di simile. Sono tantissime e diversissime l’una dall’altra, ma accomunate dall’assenza di clemenza e di poesia. Mandibole da bulldog, chioma color spago, occhi bovini, mani macchiate di fumo, mani vecchie e nervose, unghie come scarafaggetti, occhi cattivi, sorrisi troppo ampi per essere sinceri, corpo come una bambola con due cerniere che si apre sotto i colpi di tosse, visi lunghi e stretti, da volpe, pelle coriacea, occhi come bottoncini da stivaletto. Uomini e donne indifferentemente. Sembra aver cercato le associazioni più sgradevoli possibile, togliendo gli uomini dal loro piedistallo di divinità per riportarli sulla terra.

Berlino subisce la stessa sorte. Ritratta nel freddo inverno, diventa uno scheletro dolorante, trafitto dal ghiaccio. Questo è il teatro dove inizia a serpeggiare l’antisemitismo. All’inizio non è così palese, lo stesso narratore presenta alcuni episodi trattandoli con la solita neutralità, dicendoci semplicemente che la sua coinquilina è una fervente nazista e che per “merito” suo la signora ebrea del piano di sotto viene brutalmente picchiata. O quando la signora Nowak si lamenta dell’esosità del sarto ebreo e non vede l’ora che Hitler li rimetta a posto. Ma il suo è un pensiero scollegato dalla realtà, la violenza non fa davvero parte di lei.

“Quando Hitler sarà al potere, ci penserà lui a dargli una lezione a questi ebreacci. Voglio vedere se saranno ancora così spudorati!”. Ma quando le facevo notare che Hitler, se avesse potuto fare a modo suo, avrebbe tolto di mezzo anche il nostro piccolo sarto, Frau Nowak cambiava subito tono: “Oh, no, Dio non voglia! In fin dei conti fa dei bei vestiti. E poi, se sei in difficoltà, ti dà sempre un po’ di tempo. Ma dove lo trovi un cristiano che ti fa credito come lui? Chieda alla gente qua attorno, Herr Christoph: chieda, chieda, qui nessuno vuole cacciare via gli ebrei”.

[Traduzione di Laura Noulian]

È il pericolo che si nasconde nella politica. Si va dietro a qualcuno solo perché sembra l’uomo forte, spinti e inebriati da slogan, ma poi sotto sotto, trovandosi di fronte all’occasione concreta, la maggioranza delle persone scopre di non condividere gli stessi ideali. Purtroppo è anche una questione di progressivo adeguamento, la gente si sta “acclimatando“. Sempre più spesso si verificano episodi “spiacevoli” che coinvolgono gli ebrei, alcuni vengono picchiati brutalmente in strada nella semi-indifferenza generale. Della polizia che si gira palesemente dall’altra parte. Delle persone che si indignano, ma poi non agiscono. La libertà di pensiero è sempre meno accettata, iniziano le morti sospette, per “arresto cardiaco”. Eppure, anche chi è scandalizzato sembra più che altro interessato all’aspetto economico, perché gli ebrei colpiti sono grandi imprenditori e così facendo i nazisti “danneggiano il commercio”. Partiti da un discorso serio, non ci mettono nulla a declassarli a “questi giudei” e raccontare barzellette su di loro.

Così a Christopher non resta altro che andarsene. In una bellissima giornata di sole, in cui tutto quello che sta succedendo sembra troppo brutto per essere vero, inconciliabile con lo spirito della giornata. Il mondo va semplicemente per la sua strada, non è toccato dal destino degli uomini.

Mi stupisco sempre quando un libro tutto sommato breve (252 pagine)* riesce a farmi scrivere così tanto. Vuol dire che aveva un messaggio bello forte da trasmettermi. Probabilmente, se fosse stato un “vero” romanzo e se la narrazione fosse stata giusto un po’ meno esterna, gli avrei dato piedi voti. Un bel 10 però lo ottiene di sicuro per la scrittura. Già lo avevo capito da A Single Man quanto Isherwood fosse abile in questo campo e ora ne ho avuto l’ulteriore conferma. Avrei sottolineato praticamente ogni pagina, ed è tutto dire.

*Questa affermazione è puramente soggettiva, per me è breve qualsiasi testo sotto le 300-350 pagine.

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