
Una cosa di cui mi rendo conto, e di cui mi spiace, è che tendo a leggere molta più letteratura estera, tralasciando un po’ quella italiana. Ma io vado dove mi porta il vento (cioè le trame/il modo di scrivere che mi colpiscono) e non lo faccio per discriminare. Però quando ho tra le mani il libro di qualche connazionale, come I Viceré di Federico de Roberto, ne sono molto felice.
Ne Il gattopardo, Tancredi diventa portavoce di un’ideologia diventata emblema di un momento storico ben preciso. Ma la celeberrima frase “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” forse non sarebbe mai esistita se mezzo secolo prima De Roberto non avesse scritto questo immenso romanzo (nel senso anche fisico, ha circa 700 pagine). Una vera e propria denuncia con cui l’intellettuale siciliano, che soffriva nel vedere la sua terra maltrattata, voleva risvegliare la coscienza di una (nuova) classe dirigente assente, rimuovere la patina dorata dai grandi ideali risorgimentali che avevano portato all’unità d’Italia e mostrare come la storia si ripeteva sempre uguale a se stessa: i deboli da una parte, senza diritti, e i padroni dall’altra a fare quello che avevano sempre fatto.
Ho trovato il romanzo quasi teatrale. Continuo a figurarmelo come un susseguirsi di scene su un grande palco, animato dall’andirivieni dei personaggi, ben 21 solo quelli principali, contraddistinti da un agitarsi fine a se stesso. Unica grande protagonista è l’intera famiglia Uzeda di Francalanza, che da secoli può vantare il titolo di Viceré della corona borbonica. Una famiglia dove l’amore e l’affetto non si sa cosa siano e dove conta solo il denaro e l’ascesa al potere. D’altra parte non può andare troppo diversamente se il rispetto della tradizione prevede di mantenere il patrimonio integro, e che quindi solo il primogenito possa sposarsi. Gli altri figli maschi finiscono in convento o rimangono cadetti, cercando di fare carriera nell’esercito o in politica. Per le donne le alternative sono la vita religiosa, matrimoni combinati o vita da nubile, senza autonoma possibilità di scelta.
Il primo capitolo si apre con un evento che metterà non poca zizzania tra i vari membri, ovvero la morte della Principessa Teresa, abbastanza odiata in vita e ancor di più dopo la morte perché le disposizioni sull’eredità non soddisfano nessuno. Diventa una specie di gioco di tutti contro tutti e tutti contro Giacomo, il Principe ereditario, con alleanze che si creano e si disfano continuamente a seconda della situazione più vantaggiosa.
Ma se si odiano, cosa ci fanno sempre insieme? È il nome di Uzeda a unirli, la consapevolezza di far parte di una razza superiore. Per quanti screzi ci possano essere, loro rimangono i Viceré. Nessuno vuole rinunciare al riconoscimento del titolo, tra di loro si comprendono e litigano proprio per il fatto di essere uguali. La forza di questo nome si vede tutta quando si stringono a fare muro contro coloro che mai verranno considerati parte della famiglia. L’avvocato Benedetto Giulente riesce a mettere un piede nella nobiltà, ma è poco più che tollerato perché permette di avere un’ancora nel nuovo mondo liberale che sta sorgendo. Molto peggio va a Matilde Palmi, completamente innamorata del marito Raimondo nonostante il trattamento che le riserva. La famiglia la ostracizza, la rende invisibile. La sua colpa? Aver sposato Raimondo, secondo le volontà della Principessa Teresa che stravedeva per questo figlio, e quindi rubare parte dell’eredità che sarebbe toccata solo a Giacomo.
Consalvo e Teresina sono gli ultimi della catena. Per quanto riguarda la ragazza, non vi dico l’odio profondo provato verso i suoi aguzzini che sono riusciti ad annullare autostima e volontà nella giovane. A causa del lavaggio del cervello subito fin da piccola, ora il suo unico scopo è compiacere gli altri, anche a scapito della propria felicità. Non a caso viene spesso paragonata all’omonima Santa della famiglia.
Consalvo invece è figlio dei tempi che cambiano. Con l’arrivo di Garibaldi, la famiglia aveva capito che per mantenere i propri privilegi la cosa migliore era sostenere la rivoluzione liberale, in modo da poterla controllare dall’interno. Il duca d’Oragua si butta in politica ed entra facilmente in Parlamento. Ma l’interesse verso il futuro del Paese è inesistente e infatti il suo motto personale “Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri”. Senza fare troppi spoiler, Consalvo trova allo stesso modo nella politica una specie di riscatto personale. Si accorge che fuori da Catania e soprattutto nel resto d’Europa il nome di Uzeda e il titolo di Viceré ormai non contano più niente, e che l’unico modo per essere il primo tra i primi è arrivare a governare direttamente l’Italia. D’altra parte, come aveva detto saggiamente Giacomo al figlio piccolo, confuso da quello che all’epoca gli sembrava un tradimento delle proprie nobili origini: quando c’era il re, gli Uzeda erano Viceré; ora che c’è il parlamento, gli Uzeda fanno i deputati.
La scrittura è davvero potente, molto ironica, in grado di mettere in luce la natura più grottesca della famiglia e dei singoli personaggi. Il linguaggio forse può risultare un po’ desueto e di più difficile comprensione, a tratti pomposo a voler mimare l’alta considerazione di sé che hanno gli Uzeda, ma solo in alcuni passaggi, perché l’altra grande forza del romanzo sono i dialoghi. Però sì, tendevo a perdermi un po’ nei passaggi più politici. Certamente non è un mattone leggero, avevo provato a leggerlo in treno e poi in spiaggia, ma facevo fatica a seguire il filo del discorso. Ma non fatevi scoraggiare, buttatevi e non ve ne pentirete.